Fatti di Roma

PAOLO CIANI A ROMASOCIALE.COM: “IMPEGNIAMOCI A RICOSTRUIRE IL TESSUTO SOCIALE NELLA NOSTRA CITTÀ”

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Abbiamo intervistato Paolo Ciani, consigliere regionale con Democrazia Solidale e da anni impegnato accanto ai più deboli grazie alla sua esperienza con la Comunità di Sant’Egidio. Con lui abbiamo cercato di fare un punto sulla situazione del sociale nella Capitale.

Come interpreta l’attuale situazione sociale di Roma? Quali sono le più grandi difficoltà ad andare incontro ai membri più vulnerabili della società?

La situazione sociale oggi a Roma ha molte sfaccettature e molte problematicità. Sicuramente ci sono le difficoltà di cui si parla più frequentemente, relative all’integrazione e alla presenza di nuovi cittadini. Poi i problemi legati alla povertà, e penso a tante famiglie e alcuni settori che si sono molto impoveriti in questi ultimi anni, però penso anche problemi di cui si parla più raramente, ma che sono molto diffusi, come la realtà degli anziani e delle solitudini. In questi anni c’è stata una riduzione delle reti sociali, dei rapporti tra le persone, un impoverimento quindi non solo economico ma anche relazionale, di cui sono vittime spesso le persone più fragili, proprio come gli anziani. Noi abbiamo conquistato tanti anni in più di vita grazie alla scienza, alla medicina, al progresso, però poi questi ultimi anni sono per gli anziani sempre più difficili e di isolamento. Il problema poi si estende anche a chi ha disturbi psichici o problemi di salute mentale, insomma tutto un mondo poco conosciuto di grandissime solitudini. Poi certo ci sono anche i problemi più visibili, quartieri difficili, diffusione della droga. Insomma, viviamo in una Capitale bellissima, ma con grandi problemi sociali.

Come può la società civile muoversi in soccorso dei più fragili, soprattutto in considerazione del vuoto di sovente lasciato dalle istituzioni?

È un tema interessante perché riguarda il ruolo che ognuno di noi può avere per incidere nella società. Chiaramente per tanti anni c’è stata una società civile organizzata, con associazioni, movimenti, gruppi e cooperative, che ha avuto come mission l’idea di intervenire, creando però probabilmente una confusione tra ciò che era volontariato e ciò che era più apertamente il terzo settore. Per anni, infatti, abbiamo chiamato volontariato ciò che era un’occupazione economica, anche giusta importante e lecita, nel sociale. Questo ha creato però l’idea che tutti quelli che si impegnavano nel sociale erano pagati, cosa non vera in molti casi, e ha anche fatto in modo che il lavoro nel sociale venisse trattato male, con contratti di pochi mesi o con una bassa retribuzione, fatti quindi più da chi era in difficoltà che da chi viveva questo impegno come una missione. Indubbiamente, però, il ruolo della società civile, nel doppio aspetto del volontariato puro e di chi opera nel sociale, è fondamentale e non sostituibile da altri.

La società civile è ancora attiva nel territorio, o vi è un crescente disinteresse verso la solidarietà?

Sicuramente l’impegno è cambiato. Ancora negli anni ’80 e ’90 c’era un’idea e un messaggio culturale degli anni precedenti di maggior militanza, un senso di partecipazione più condiviso. Però nella mia esperienza con la Comunità di Sant’Egidio ho visto in anni recenti, penso all’anno scorso e alla grande emergenza freddo che c’è stata a Roma, che lì dove ci sono momenti in cui la gente capisce il dramma di chi è più fragile, tanti rispondo agli appelli di solidarietà. C’è il desiderio di fare del bene. È cambiato, non è più un’idea culturalmente diffusa, che forse però una volta era più ideologica e di moda. Oggi si tratta più di una scelta personale, ma la volontà di fare del bene e aiutare gli altri ritengo sia ancora molto diffusa.

Perché è importante invece tendere la mano ai settori più fragili della società?

L’idea del mutuo soccorso, di costruire insieme il bene comune, è fondamentale per una società. Abbiamo avuto in questi anni una grande accelerazione verso l’individualismo come modello culturale, ma anche come modello sociale e noi sappiamo che una società di individui è una società non solo infelice, ma che non funziona affatto. A me colpisce come si sia perso il senso di comunità, di socialità. Spesso, infatti, chi guarda con nostalgia al passato, guarda a un periodo che sotto alcuni versi era più difficile, più duro, in cui però c’era l’idea di costruire le cose insieme, ed è questo che provoca nostalgia. Oggi c’è un senso di rabbia, di insoddisfazione, di paura, spesso data da un senso di solitudine, di sentirsi meno insieme agli altri. Questo ci rende tutti più fragili.

Come facilitare il dialogo e la comunicazione per superare le barriere che un certo tipo di dialettica – quella del diverso e quindi pericoloso – ha solidificato negli ultimi anni?

La paura del diverso è qualcosa di atavico, che c’è sempre stata e che, in epoche diverse, è sempre stata riesumata e riutilizzata. Però purtroppo negli ultimi anni in Italia abbiamo avuto una costruzione a tavolino della politica su questo concetto. Ma non solo verso il diverso, secondo me si è spinto proprio sulla divisione, che per noi cristiani è il male. C’è stata una predicazione del noi contro loro, del Nord contro il Sud, poi del noi contro gli immigrati, degli anziani contro i giovani per il lavoro e le pensioni… Insomma, si è insistito su questo. Questa retorica nasce da qualcosa di più profondo, cioè l’idea che se qualcosa non funziona è colpa di qualcun altro. Non si pensa mai che un diritto vada in qualche modo conquistato o riconquistato, ma si tende sempre a incolpare gli altri. Questo è passato molto nella nostra società e nella nostra cultura e oggi è una delle maggiori criticità su cui la politica soffia molto e cerca consenso. Bisogna quindi ricostruire il tessuto di rapporto, un’idea di coesione sociale, di incontro tra generazioni e culture diverse, perché una società parcellizzata non funziona.

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