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ARTROSI DEL GINOCCHIO, NON C’È SOLO LA PROTESI

Salvate il soldato Ryan, ovvero l’articolazione del ginocchio, è il mantra della chirurgia ortopedica del terzo millennio. Un concetto che gli americani chiamano preservation joint, che significa appunto “conservare l’articolazione”. E grazie all’ortobiologia, la protesi del ginocchio può attendere ed essere rimandata anche di 10-20 anni. Alla base di tutto c’è la cartilagine, una sorta di cuscinetto che ricopre le ossa dell’articolazione del ginocchio e ne permette un movimento fluido. “Tutti noi nasciamo con un patrimonio di cartilagine – spiega in una nota il professor Ezio Adriani, direttore U.O Traumatologia dello sport e chirurgia del ginocchio, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs – che è alla base del movimento dell’articolazione. Quando la cartilagine si consuma, la funzione articolare si riduce gradualmente. Quando la cartilagine è completamente scomparsa, non si può far altro che sostituire la cartilagine stessa o tutta l’articolazione. Ma prima di arrivare a questo punto, oggi possiamo fare molto per preservarla”.

La cartilagine si consuma per motivi genetici, sui quali non è possibile al momento intervenire, e per una serie di fattori di rischio, quali il sovrappeso o una deviazione dell’arto (ginocchio varo o ginocchio valgo), che determinano entrambi un sovraccarico sull’articolazione. “Molto importante inoltre è mantenere sane le strutture che proteggono la cartilagine, in particolare i menischi e i legamenti crociati. Diagnosticare precocemente un danno a carico di queste strutture, consente di ripararle”. I sintomi guida di un danno all’articolazione del ginocchio sono il dolore, il gonfiore (il ginocchio è come l’occhio, se è infiammato, ‘lacrima’, produce un versamento articolare) – che è l’elemento più importante per il medico – e la riduzione del movimento, fino al blocco articolare. “Per la diagnosi di artrosi – spiega il professor Adriani – basta una semplice radiografia del ginocchio, che va fatta però in piedi, cioè sotto carico. Costa meno della risonanza magnetica ed è più efficace nel valutare la scomparsa della cartilagine”.

Per prevenire l’artrosi del ginocchio, sotto i 40 anni bisogna dimagrire e riparare menischi e legamenti: a quest’età, oltre a dimagrire in caso di sovrappeso, bisogna cercare di preservare l’articolazione, trattando in maniera efficace e tempestiva eventuali traumi del ginocchio. “Se si rompe un menisco o il legamento crociato – spiega il professor Adriani – lo dobbiamo riparare. Nei caso in cui ci trovassimo di fronte ad un danno irreparabile del menisco, possiamo intervenire con un trapianto di menisco da cadavere, una tecnica che si esegue solo in pochi centri in Italia. Tutti questi interventi vanno fatti prima che il danno a queste strutture vada a consumare la cartilagine”. Dai 40 ai 60 anni serve una osteotomia per rimettere in asse il ginocchio. Sempre in ambito preventivo, in caso di deviazione dell’asse del ginocchio (ginocchia a ‘X’ o a ‘O’), è possibile effettuare una chirurgia correttiva mediante osteotomia, una tecnica un po’ sottovalutata negli ultimi anni. “L’osteotomia – spiega il professor Adriani – va a modificare l’asse dell’articolare attraverso una ‘frattura’ chirurgica che oggi viene effettuata con sistemi molto sofisticati e computer-aiutati, per correggere con precisione i gradi di varismo o valgismo, permettendo di riallineare l’articolazione. Avere un ginocchio varo o valgo equivale ad avere le sospensioni dell’auto non equilibrate; l’equilibratura invece ci permette di consumare le gomme in modo più omogeneo. Chi ha un ginocchio varo ad esempio consuma solo la parte interna del ginocchio; nel caso di ginocchio valgo, si consuma la cartilagine della parte esterna”.

Sopra i 60 anni è possibile l’ortobiologia, ultima spiaggia prima della protesi: dai 60 anni in su inizia ad esserci la possibilità di un’indicazione protesica sostitutiva, che va valutata però step by step. “Se il consumo della cartilagine è ancora incompleto – spiega il professor Adriani – possiamo ricorrere alle risorse che ci mette a disposizione l’ortobiologia, allo scopo di migliorare l’ambiente articolare. L’ortobiologia promuove la riparazione dei tessuti dell’apparato muscolo-scheletrico, stimolando le risorse naturali dell’organismo. Per farlo, sfrutta le proprietà di alcune sostanze di sintesi come l’acido ialuronico (visco-supplementazione) e di alcune risorse endogene, come i fattori di crescita e le cellule staminali. Dal sangue, si estrae la cosiddetta ‘pappa piastrinica’ o Prp (Platelet-Rich Plasma), un concentrato ricco di fattori di crescita, proteine che stimolano la proliferazione e la differenziazione delle cellule, allo scopo di riparare un tessuto danneggiato. Il Prp promuove la riparazione e la rigenerazione della cartilagine, ne ritarda i processi di degenerazione e riduce l’infiammazione, alla base della sintomatologia dolorosa dell’artrosi. Il trattamento con PRP è di tipo infiltrativo (si inietta direttamente nella zona della lesione) e può essere ripetuto più volte in base alla sintomatologia del paziente.

Le terapie cellulari sfruttano l’azione delle cellule staminali prelevate dal grasso o dal midollo osseo. Il vantaggio del grasso è che mantiene un’elevata concentrazione di cellule staminali anche in tarda età, rispetto al midollo osseo, che invece si impoverisce con gli anni. Le cellule staminali, favoriscono la riparazione dei tessuti sia direttamente (dividendosi e differenziandosi in diverse linee cellulari), che ‘dialogando’ con le cellule già presenti nel tessuto da riparare, al fine di stimolare una rigenerazione ordinata dello stesso. Il grasso da utilizzare (prelevato dall’addome, dai fianchi o dalle cosce) viene meccanicamente filtrato per concentrare la frazione vascolare stromale, ricca di staminali; è questa la parte che viene iniettata nell’articolazione.

“Nel caso in cui ci trovassimo già di fronte ad un usura completa della cartilagine – spiega il professor Adriani – a quel punto l’ortobiologia ha solo un effetto sintomatico (toglie cioè il dolore), ma non rigenerativo. L’ortobiologia può mantenere un’efficacia sui sintomi per 5-10 anni; la durata dipende molto dallo stato di avanzamento dell’artrosi. Ad oggi è utilizzata come coadiuvante nel trattamento riparativo dei tessuti che, per età o per caratteristiche intrinseche, hanno meno capacità di guarigione. Se dobbiamo riparare il menisco di un 50-60 enne, che ha minori possibilità di guarigione, con l’aggiunta dell’ortobiologia riusciamo ad aumentarne le capacità riparative. L’ortobiologia è molto indicata insieme ad un altro gesto chirurgico, quali quelli sul menisco o sulla cartilagine. Nella fase finale, quando si è già instaurata l’artrosi, serve solo a guadagnare tempo, togliendo il dolore, prima di arrivare alla protesi”. Quando la cartilagine del ginocchio è rovinata parzialmente, è possibile ricorrere ad una protesi ‘parziale’, o protesi mono-compartimentale, cioè ad una sostituzione parziale dell’articolazione. “Questo – spiega il professor Adriani – ha il grande vantaggio di conservare intatti tutti i legamenti del ginocchio e quindi è un intervento più performante e meno invasivo. Basta una notte di ricovero, il paziente cammina subito e ha una funzionalità pressoché completa dell’articolazione. Può durare oltre 20 anni”.

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