Fatti di Roma

V.I.C. DA 20 ANNI VOLONTARI IN CARCERE, UNA MISSIONE CHE CONTINUA

Carcere


Daniela De Robert, presidente dell’associazione V.I.C. – Volontari in Carcere, che lavora da oltre 20 anni a Rebibbia e nel reparto carcerario dell’ospedale Sandro Pertini, ci racconta in presa diretta la situazione del mondo carcerario romano.

Quali sono oggi i problemi emergenti all’interno delle carceri romane?

A Roma vi sono 5 carceri per adulti (quattro a Rebibbia, di cui tre maschili e uno femminile, e uno a Regina Coeli). La situazione è difficile e con numerosi problemi. Uno di questi è il sovraffollamento, che rispetto al passato ha avuto un miglioramento. Rimane comunque un problema di numeri e di qualità. Sempre più spesso a finire in stato di reclusione sono le fasce deboli, i poveri, gli stranieri o i giovani in stato di disagio. Persone che anche fuori vivono condizioni difficili, afflitte da povertà materiale, malattie fisiche e mentali. V.I.C. opera da vent’anni nelle carceri romane, osservando che a Roma, nella capitale dello Stato Italiano, uno dei Paesi del G8, vengono incarcerate persone talmente povere da non disporre nemmeno del vestiario. Quando gli operatori dell’associazione incontrano i carcerati presso il punto di ascolto, ricevono richieste di abiti adeguati alle stagioni, che nessuno provvede a fornire loro se non i compagni di cella. Così gli operatori distribuiscono vestiti e persino biancheria intima. Ma anche prodotti per l’igiene personale, poiché il carcere fornisce appena i rotoli di carta igienica e a volte una saponetta. Le celle affollate sono un altro problema, con conseguenti situazioni di difficile convivenza. Basti pensare ai “cameroni”, che ospitano da 8 a 15 persone, spesso molto diverse tra loro. Si ritrovano così nella stessa cella fumatori e non, chi osserva il Ramadan e chi mangia la carbonara, chi ha necessità di piangere e chi di ridere. Altro problema è l’insufficienza di personale addetto, degli agenti, ma soprattutto degli educatori, preposti alla finalità della pena. Il trattamento per il reinserimento, infatti, è affidato ad un numero esiguo di educatori, insufficienti per poter svolgere in maniera adeguata il loro compito, ed anche gli psicologi, sono pochissimi ed esterni rispetto alla struttura carceraria. Emerge con forza il problema della preparazione del carcerato al dopo, con particolari criticità su piano del reinserimento lavorativo.

Quali lavori vengono svolti dai carcerati nel periodo di detenzione?

In carcere c’è pochissimo lavoro e spesso è quello del carcere stesso (lavori di pulizia, lo “scopino”, o amministrativo lo “spesino”), classificato con nomi inadeguati che richiamano alla memoria il periodo dell’asilo infantile. Viene svolto a rotazione tra i detenuti, risultando poco remunerativo. Sono rare le opportunità di lavoro esterno, spesso subordinato alle indicazioni dei direttori. Questa situazione genera un forte disagio per quei carcerati che hanno famiglia, soprattutto per gli stranieri che hanno parenti all’estero da mantenere.

Come viene affrontato il problema del reinserimento dei carcerati nella società?

Vi sono grosse criticità su ciò che accade dopo l’esperienza in carcere. Il problema del lavoro e dell’alloggio sono i principali. V.I.C. si è dotata di una casa alloggio per ospitare uomini e donne detenuti che ottengono un permesso premio. Questo perché la povertà abitativa comporta meno diritti. Un carcerato che ottiene un permesso premio, non ne può usufruire se non dispone di una casa dove andare. Gli affitti pagati in nero, le abitazioni in cui vi sono altri pregiudicati o i mancati adempimenti amministrativi sono situazioni che pregiudicano il diritto all’accesso del permesso premio. Sono molte le persone che non hanno potuto usufruire dei domiciliari con il “decreto svuota carceri” a causa dell’assenza di un alloggio. V.I.C. per ovviare al problema opera da sempre in rete con altre associazioni che svolgono la loro attività nelle carceri, ma spesso questo non è stato sufficiente. Da qui la volontà di aprire una casa alloggio. A questo problema si aggiunge quello del pregiudizio, delle ostilità e della chiusura che un carcerato deve affrontare nel momento del reinserimento nella società. Lo status di ex-detenuto genera riserve nei confronti di chi affitta una casa o offre un lavoro. Si genera in questo modo un’esclusione dai circuiti sociali. Senza una casa, un lavoro, delle amicizie e degli affetti si creano le precondizioni per il reiterarsi dei reati.

Quali sono le tipologie di progetti che hanno dato i maggiori benefici in termini qualitativi alla popolazione carceraria?

Di progetti ce ne sono tanti, tutti legati al terzo settore. Tra le direzioni delle carceri e le Associazioni, risorsa preziosa per la vita dei carcerati, vi è un clima di grande collaborazione. Non c’è una tipologia migliore delle altre. Il problema della creazione di posti di lavoro è centrale, ma ricade prevalentemente in capo alle cooperative e aprirebbe un discorso ulteriore a questo. Bisogna piuttosto concentrarsi sugli elementi che i progetti dovrebbero avere: la continuità nel tempo, la costanza (la fedeltà da parte di chi attua il progetto) e una visione che vada oltre il progetto stesso. I progetti dovrebbero rappresentare per i carcerati l’occasione di instaurare relazioni diverse, più profonde. Dovrebbero servire a costruire un percorso di accompagnamento finalizzato al reinserimento in società. È necessario offrire molto alle persone in carcere, perché lì dentro, come fuori, servono occasioni di confronto con realtà serie che spingono le persone a fare sul serio. Serve l’opportunità di sperimentare e di riflettere senza alimentare il senso di colpa. Un esempio è l’esperienza progettuale che V.I.C. da due anni sta portando avanti con i malati di mente nella casa di reclusione per “minorati mentali”. Il progetto li invita a stare insieme, riscoprendo una dimensione comunitaria nella quale ritrovarsi. Non è seguito da psicologi o psichiatri, ma dai volontari che prestano attenzione e ascolto ai detenuti. Il progetto ha permesso di creare una spazio rigenerativo, privo della violenza, anche psicologica, determinata dalla condizione stessa di reclusione. In funzione riabilitativa vanno intese anche le esperienze scolastiche e culturali, poiché aiutano il carcerato a crescere e pensare oltre sé stesso il dramma di vita che sta vivendo. In carcere si ha la percezione di essere vittime, è un po’ lo si è. Quindi i progetti servono nella misura in cui riescono a porre la persona al centro di sé stessa, avendo la possibilità di percepirsi non come un centro di sofferenza, ma piuttosto in maniera positiva.

E.A.

 

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