SALUTE, TORNA “IN VITA” UN CERVELLO (IN 3D) DI 17 MILA ANNI FA E PUO’ AIUTARE NELLA RICERCA SULLA DISLESSIA
Negli Usa sono riusciti a ricostruire un cervello, in 3D, di un uomo di 17 mila anni fa ma non è solo merito statunitense questa scoperta, difatti il campione viene da un sito italiano, la grotta di Romito a Papasidero in Calabria che contiene una grande quantità di reperti storici e testimonianze rupestri. Grazie alla ricostruzione di porzioni del Dna del ragazzo sono emersi due elementi che aiuteranno a mappare l’evoluzione della dislessia nel corso dei secoli fino ad oggi.
Lo studio è condotto da ricercatori italiani, suddivisi tra archeologici, neuroscienziati, fisici e antropologi delle melocole con il sostegno dell’Università Irvine della California; secondo Fabio Martini, docente di archeologia a Firenze “Si tratta dello scheletro – spiega Martini – di un preadolescente, le cui ossa del cranio erano ancora plastiche, in sviluppo, tanto da lasciare, seppure in maniera invisibile all’occhio umano, l’impronta del cervello, rilevabile con le tecnologie sofisticate di oggi” e grazie a questo sono riusciti a un modello dell’organo per com’era nell’antichità.
“A Trieste – racconta Fabio Macciardi studioso di neuroscienze dell’università della California e docente di genetica medica all’università degli studi di Milano – Tuniz ha fatto la ricostruzione teorica, grazie alle tecnologie avanzate del suo laboratorio. Ha preso il cranio, lo ha posto in modo da permettere una rotazione completa e ha realizzato circa 4mila radiografie, più o meno 10 per ogni grado della rotazione completa. La mappa ha permesso la stampa del cervello, qui in California, dove sono disponibili le strutture necessarie”, sul piano genetico, il lavoro è affidato alla professoressa Olga Rickards, ordinario di antropologia molecolare all’università di Tor Vergata, ha permesso l’estrazione del Dna dallo scheletro di 17 mila anni fa.
“Un lavoro complesso – continua Macciardi – che necessita di un laboratorio di sicurezza, isolato. E precauzioni simili a quelle dei laboratori in cui si manipolano virus, per evitare la contaminazione del Dna antico”. Lavorare sull’elica ’archeologica’, infatti, è molto complesso. “In molti scheletri antichi il Dna non si trova perché degradato. Ed è difficile estrarlo dalle ossa. Siamo stati fortunati a trovarne. Si tratta infatti di una molecola organica, rimasta in un ambiente ’morto’ per millenni. Si frammenta, si rompe, si contamina (batteri, funghi, manipolazioni). E’ un reperto anche quello, che deve essere maneggiato con cura”.
La professoressa Rickards “è riuscita a sequenziarlo”, aggiunge Macciardi, che nei suoi studi si occupa di schizofrenia, autismo e disturbi le linguaggio. “Oggi molti ricercatori lavorano per trovare i geni legati alle patologie del linguaggio. Ma si tratta di una competenza molto complessa e si rischia di perdersi in un mare di ’informazioni’ genetiche. Serve scegliere solo quelle importanti che sono, probabilmente, sia quelle conservate nei millenni, sia quelle sviluppate nell’evoluzione”.
E qui entra in gioco il cervello in 3D e la sequenza del Dna ’archeologico’. “Abbiamo realizzato, sui dati ottenuti, molti confronti con quelli contemporanei. E il nostro obiettivo è realizzare, su 70 scheletri molto più antichi, lo stesso lavoro. Potremmo così ottenere una vera e propria mappa dell’evoluzione del cervello e del linguaggio degli ultimi 200 mila anni. Sapere con precisione quali sono i geni del linguaggio”. Ma anche ’datarli’. “Alcuni antropologi pensano che il linguaggio sia nato insieme all’arte, al pensiero simbolico (50 – 60 mila anni fa). Altri addirittura pensano a 500 mila anni fa. Due estremi su cui potremmo essere più chiari incrociando i dati morfologici e genetici delle diverse fasi evolutive”. Un progetto che ha, al momento, un limite. “Si tratta di studi costosi che hanno bisogno di finanziamenti che
bisognerà trovare”, dice Macciardi.