ORARI E TURNI INSOSTENIBILI, I MEDICI OSPEDALIERI TRA BURNOUT E ABBANDONO
“Notti in bianco, seguite da un riposo troppo breve prima di una nuova notte in corsia, da soli per 90 pazienti, con sulle spalle la responsabilità della salute e della vita dei pazienti. Il dover rispettare turni massacranti, il dover accettare decisioni altrui non corrispondenti alle proprie convinzioni, la mancata progressione economica, sono tutte condizioni lavorative che stanno causando tra i medici ospedalieri profonda insoddisfazione lavorativa, fino a vere e proprie sindromi di burnout in percentuale maggiore rispetto alle altre professioni”. Lo dichiara Alessandro Garau, segretario nazionale del sindacato CoAS Medici Dirigenti, commentando la decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di riconoscere come sindrome del burnout, il cosiddetto “stress da lavoro”.
“Mentre molte aziende, ai fini stessi della produttività, – continua Garau – si pongono sempre più il problema di soddisfare il ‘benessere sul lavoro in senso lato’, nella maggior parte delle Aziende Sanitarie italiane l’analisi della qualità della vita dei propri dipendenti – ed in particolare dei medici – non viene neppure presa in considerazione. In quelle aziende sanitarie dove si affronta lo studio del progressivo disagio e della disaffezione dei dipendenti, nella gran parte dei casi si genera un’ulteriore burocratizzazione senza effetti pratici”.
“Con burnout non si intende solo lo stress da eccessivo lavoro – spiega Garau – ma anche la sensazione che il proprio lavoro non abbia una vera utilità, o per cattiva organizzazione del lavoro, o per il convincimento che il rispetto dei pesanti orari di servizio e degli ormai preponderanti obblighi amministrativi sia del tutto inutile ai fini del risultato derivante dal progetto e processo di cura. Una sensazione di cui fanno esperienza soprattutto i medici delle oncologie, spesso costretti ad assistere al decesso del proprio paziente”.
“Inoltre, – prosegue Garau – alla pressione psicologica derivante dalla constatazione che i turni di servizio incidano negativamente sulla vita familiare, alla amarezza che la dedizione alla professione e il rispetto delle incombenze non vengano adeguatamente riconosciute e premiate, si aggiunge il mancato riconoscimento di una retribuzione adeguata”.
Secondo il segretario nazionale CoAS questa è la causa che spinge i camici bianchi a fuggire verso qualsiasi soluzione lavorativa, purché diversa da quella ospedaliera: “Ogni alternativa sembra essere diventata preferibile: alcuni si dimettono e ripartono da zero frequentando i corsi della medicina generica, altri abbandonano le strutture pubbliche per quelle private, alcuni emigrano all’estero, qualcuno cambia del tutto professione. È significativo che in percentuale crescente abbandonino una retribuzione certa per una incerta”.
La già grave carenza di medici specialisti ospedalieri, derivata da anni di ridotti accessi alle scuole di specializzazione – per ridurne i costi –, viene ad essere aggravata da questa fuga dagli ospedali visti come un ambiente di lavoro difficile e pieno di tensioni, capace di creare disaffezione e disagio. Anche l’incapacità del management di mostrare rispetto, attenzione e apprezzamento verso il diretto lavoro dei colleghi sui pazienti, costituirebbe una modalità di ridurre le sensazioni conflittuali.
“Ci auguriamo – conclude Garau – che le autorità competenti alla tutela della salute riescano ad invertire questo peggioramento delle condizioni di lavoro dei medici ospedalieri, ma le notizie che filtrano dalle sale dell’ARAN sembrano di segno opposto: a un apprezzabile sforzo ministeriale per la parte economica, sembra che farà da contrappeso un ulteriore peggioramento di alcune norme sugli orari di lavoro e di recupero psicofisico, tali che sembra di poter essere facili profeti nel prevedere che l’esodo da quei posti fissi un tempo agognati, proseguirà fino a che l’intera categoria di medici ospedalieri sarà ridotta alla marginalità”.
Maddalena Tomassini