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MONSIGNOR PAGLIA, BISOGNA CURARE PRENDENDO IN CARICO LE FRAGILITÀ UMANE

mons paglia


Qualsiasi progresso in medicina non può “nascondere la fragilità” della condizione umana. Curare sembra un obiettivo semplice ed efficace; in realtà lo sviluppo tecnologico e scientifico se da un lato ha ampliato le possibilità di curare, dall’altro ha prodotto patologie e “cortocircuiti” linguistici. Cosi’ monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, nell’intervento al seminario di studio ’Le parole della cura’ che si è svolto nella sede dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede (Palazzo Borromeo, Roma).

“La capacità della biomedicina di trattare le malattie acute comporta spesso la produzione di situazioni patologiche croniche”, ha detto monsignor Paglia prendendo in esempio lo sviluppo delle tecniche di rianimazione: da un lato consentono interventi risolutivi salvavita, dall’altro producono effetti “decisamente sconcertanti. Per esempio portano dei malati a restare in quelli che vengono definiti ’stati vegetativi’, che in realtà non sono né ’stati’, perché sono molto dinamici e oscillanti, né ’vegetativi’, perché gli umani non sono mai equiparabili alla condizione vegetale”.

“Sempre più quindi allungare la vita può significare allungare il tempo di convivenza con le malattie. E rendere più seria e importante la ricerca dei presidi che devono integrare l’esperienza esistenziale e sociale di pratiche della cura all’altezza della dignità e degli affetti della persona umana”, ha continuato Paglia che ha sottolineato come qualunque progresso non possa “nascondere” la “fragilità” della condizione umana.

Noi rimaniamo vulnerabili anche in questa epoca in cui la tecnologia e la medicina hanno fatto enormi passi avanti”, è una prospettiva su cui anche chi si dedica alle professioni di cura va sensibilizzato: è un importante compito formativo, a cui gli infermieri sono spesso più preparati dei medici. Occorre quindi, secondo il presidente della Pontificia Accademia della Vita valorizzare stili di vita e di relazione che non fuggono dalla fragilità, ma assumono l’evidenza del progressivo declino cui siamo sottoposti e che, come abbiamo detto sopra, la medicina contemporanea paradossalmente enfatizza, aumentando il tempo di convivenza con la malattia debilitante.

“Nell’accoglienza della fragilità, anche estrema, evocata dall’atto originario della cura, si costruisce il legame fondamentale che accomuna gli esseri umani: la nostra origine e la nostra destinazione sono sempre affidate alla cura della vita. E dunque, a un atto d’amore che resiste alla fragilità della nostra condizione mortale: senza abbandonarci a essa. L’umano condiviso, nella radice che ci rende fratelli e sorelle in virtù della cura che ci custodisce dall’inizio alla fine, è proprio questo. Per meno, ogni pretesa e ogni promessa di rimanere umani, è violata irrimediabilmente”.

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