L’EDUCAZIONE CRISTIANA HA ANCORA DIRITTO DI CITTADINANZA?
Ormai si educa a tutto: allo studio e all’apprendimento, allo sport e al tempo libero, allo stare insieme e al rispetto, all’alimentazione e all’ambiente, all’uso della tecnologia e al web, alla spiritualità e alla fede, alla musica e all’arte, alla pace e all’accoglienza, e via dicendo. Ogni processo educativo ha maestri, tempi, metodi, percorsi e costi suoi propri, il che ha dato vita ad una pluralità di agenzie educative prêt-à-porter, interscambiabili e non comunicanti tra loro, ma che si dirigono tutte insieme sugli stessi soggetti, bambini e ragazzi soprattutto. Tuttavia osserviamo che più aumenta la pressione educativa, più si alza il tasso di analfabetismo relazionale e, di conseguenza, la difficoltà a vivere con se stessi e con gli altri.
Per avere un archetipo di questa situazione, basterebbe spingersi all’uscita di una scuola media per assistere con regolarità a urla, spintoni, trivialità, parolacce e pure bestemmie, senza percepire la presenza di una delle tante agenzie educative dedicate a questa fascia d’età: gli insegnanti si fermano sulla soglia della scuola, i genitori sulla soglia di casa, i vigili sulla soglia del codice della strada, gli assessori sulla soglia del Municipio, tutti legalmente chiusi nel rispetto delle singole competenze, attenti a non esondare dal secco fiumiciattolo del dovere-minimo stabilito dalla Norma, per non andarci di mezzo o prendersi responsabilità non tutelate.
Questa frammentazione dei processi educativi è conseguenza diretta della costante sostituzione di pezzi di antropologia cristiana con pezzi incoerenti di antropologia di tipo iper-radicale, frutto deteriorato di alberi filosofici otto-novecenteschi. Siamo passati, con resistenza ormai prossima allo zero, da “la vita è sacra” a “la vita è priva di senso e valore in sé” (nichilismo); da ”ama il prossimo tuo” a “io sono l’unica misura di me stesso” (individualismo); da “siamo cercatori della Verità” a “non esiste alcuna verità ed ognuno ha la sua” (relativismo); dai “cattolici che si impegnano in politica” a “la sfera religiosa è un fatto privato e non tocca quella pubblica” (secolarismo); da “la persona ha dignità per quel che è, non per quel che ha” a “tutto ha un prezzo e tutti valgono per quel che producono” (utilitarismo liberista); da “maschio e femmina li creò” a “sono maschio o femmina se e come lo decido io” (teoria gender, lontana erede dell’esistenzialismo ateo, della dialettica materialista marxista e di Freud). Queste visioni antropologiche, che sottendono ai processi educativi, sono tra loro antitetiche: tuttavia il dovere di dialogare con chi ne è portatore non solo è d’obbligo, ma necessario: questo vale per i cristiani, ma vale pure per i laici, in particolare per chi ha funzioni pubbliche. Mi pare, tuttavia, che nei convegni, negli eventi e nei meeting pubblici e talvolta persino negli open days delle scuole statali venga a mancare il confronto con le esperienze educative portatrici di una visione antropologica cristiana.
Marco Brusati