QUANDO LA MUSICA ASSUME UN RUOLO SOCIALE
«In prima persona sto subendo la proliferazione di artisti raccomandati immeritevoli che spopolano nelle stagioni di tutt’Italia. Trovo irrispettoso che tante giovani “matricole della musica” non proprio all’altezza siano sempre presenti nei cartelloni delle stagioni più importanti al posto di chi ha più esperienza, capacità e talento di loro»
Così si sfoga su Facebook un pianista vincitore di grandi concorsi internazionali. E sono molti oggi i musicisti che, avendo raggiunto un eccellente livello professionale, si sentono come defraudati del diritto di essere ingaggiati: quasi che un utopistico “sistema musicale” debba garantire loro un’attività concertistica stabile. Ciò poteva forse avvenire negli anni ’60 o ’70 nei paesi comunisti dell’Est Europeo, quando un’organizzazione centralizzata gestiva la produzione culturale con fondi esclusivamente pubblici. Oggi, in Italia, la situazione è drasticamente diversa: la crisi economica e i sempre maggiori tagli alla cultura obbligano i direttori artistici a operare con criteri di convenienza commerciale, a volte a discapito della mera qualità professionale. L’errore in cui spesso cadiamo è di guardare la realtà dell’attuale vita culturale italiana solo da un punto di vista: il nostro, ossia, per quanto mi riguarda, quello di chi sale sul palco e viene pagato per suonare. In questa prospettiva verrebbe spontaneo pensare che il criterio di selezione per una stagione concertistica sia quello della bravura degli interpreti. Ma chi ci assicura che la nostra professionalità, da sola, sia sufficiente a stimolare nel pubblico e negli organizzatori il desiderio di ascoltarci in concerto? E siamo certi che il pubblico sia in grado di percepire realmente la qualità di un artista allo stesso modo in cui la può giudicare un professionista del settore?
Analizzando le carriere fulminanti di musicisti oggi sulla cresta dell’onda e non proprio ineccepibili dal punto di vista professionale, si notano alcuni tratti distintivi che ne hanno determinato il successo a prescindere dalle loro qualità artistiche, e che andrebbero inquadrati e studiati in un contesto sociologico: un dettaglio biografico particolare, un look che li rende subito riconoscibili, un determinato modo di parlare o di porsi. Il pubblico ha bisogno di immedesimarsi in storie umanamente coinvolgenti, e lo stesso puro ascolto musicale può essere più o meno intenso e vissuto proprio in base al contorno, all’immagine che contestualizza la percezione musicale con aspetti che non appartengono alla musica in sé, ma che influiscono sulla sua comunicazione. Dalla fortuna di questi fenomeni c’è molto da imparare: le strategie di marketing applicate con successo in ambito pop o nelle campagne pubblicitarie possono facilmente funzionare anche con i contenuti più articolati dei progetti musicali colti, come mezzi efficaci per creare nuove generazioni di ascoltatori.
Del resto già l’attuale pubblico è in gran parte composto da persone che amano la musica, ma che la ascoltano con un approccio diverso dal professionista. Sono convinto che quasi tutti gli spettatori di un concerto (e mi metto anch’io tra costoro) cercano il coinvolgimento emotivo, attendono l’attimo di commozione, sperano in un momento di magia che li trasporti in mondi lontani e superiori. La nota sbagliata può anche passare inosservata, mentre una debole partecipazione emotiva e l’assenza di comunicazione da parte dell’interprete sono letali. E ciò vale ancor di più per tutto il “resto del mondo”, quell’altro 99,9% di persone che normalmente non si recano ad un concerto di musica classica, ma che potenzialmente potrebbero lasciarsene coinvolgere, se raggiunti in modo efficace. Ma come?
Ad esempio, inventando nuove forme di comunicazione della musica: non solo concerti in teatro. Proporre la musica classica dal vivo anche a piccolissime dosi, con micro-concerti di 5-10 minuti nelle scuole, nei luoghi pubblici, nei centri commerciali, in abitazioni private, potrebbe forse creare gradualmente un maggiore interesse e sfondare quel muro di gomma che divide la gran parte delle persone dall’ascolto di una sonata di Beethoven. Esperienze come Pianocity (un progetto di centinaia di concerti in due o tre giorni nelle abitazioni private di una città) hanno dimostrato che è possibile mantenere la magia di un concerto anche in luoghi diversi da quelli tradizionalmente deputati all’ascolto della musica classica. L’importante è garantire la concentrazione e il silenzio necessari per “somministrare” la musica di Mozart, Beethoven o Chopin, senza che ne sia snaturato il senso. Non, quindi, ascolto in sottofondo, ma momenti in cui l’attenzione di 5, 10, 50 persone sia interamente convogliata verso il messaggio musicale. ll “recital pianistico”, inventato da Liszt nel 1837, rischia oggi di essere un format obsoleto. Forse non si estinguerà, ma andrà certamente rimodellato in base alle nuove modalità di comunicazione della società contemporanea.
E comunque non è vero che il pubblico è “in via di estinzione”. Ma bisogna certamente operare per restituire alla musica classica dal vivo la sua utilità sociale, perché venga percepita come un’esigenza primaria, naturale: non solo intrattenimento, bensì occasione di crescita interiore, di approfondimento introspettivo, di energie individuali convogliate verso un comune sentire. Oggi molti avvertono il bisogno di un rinnovata “salute dello spirito”, di vivere con maggiore consapevolezza la propria sfera emotiva. Ascoltare un concerto non è come partecipare a una seduta di Yoga, ma può dare gli stessi benèfici risultati.
Dobbiamo essere soprattutto noi musicisti, in prima persona, a diventare anche “comunicatori di musica”: divulgatori nel senso più alto e nobile del termine. Divulgazione non significa affatto svilimento o banalizzazione. Al contrario: vuol dire abbattere i pregiudizi e gli steccati sociali che a volte limitano il messaggio poetico di un’interpretazione musicale. Anche creando occasioni in cui la musica venga spiegata: non con paludate conferenze musicologiche, ma con incontri informali in librerie, scuole, pub, giardini, in cui un gruppo di musicisti racconti la propria esperienza con la musica, il proprio sguardo su un determinato autore o brano. Al Parco della Musica di Roma le “Lezioni di Musica” curate da Giovanni Bietti hanno richiamato moltissimi giovani e famiglie, ad ascoltare un musicista che parla delle Sinfonie di Beethoven o dei principi del fraseggio pianistico. A New York locali come Le Poisson Rouge propongono tutte le sere musica dal vivo (di vari generi, ma sempre di alta qualità) in un contesto da night club, con un rapporto di diretta e naturale convivialità tra interprete e pubblico, e la gratificazione è anche maggiore di quella che si può riscontrare in una tradizionale sala da concerto. I concerti di Le Poisson Rouge sono trasmessi in video streaming su internet e pubblicizzati soprattutto attraverso i social network: Twitter, Instagram, Facebook. E proprio dai principi fondanti di Facebook c’è molto da imparare: share, like, vale a dire condivisione e passione comune. Sono questi gli ingredienti per una nuova comunicazione. Se ciò avvenisse anche attraverso adeguate produzioni televisive di divulgazione musicale, diffuse viralmente via internet, l’effetto sarebbe ancor più efficace e globale.
Tornando alla condivisibile frustrazione dei tanti professionisti della musica oggi tagliati fuori dal mercato, rimane solo un augurio: che proprio loro, prima che sia troppo tardi, abbandonino un’ottica autoreferenziale, riscoprendo invece la bellezza del comunicare la musica a 360 gradi, dentro e fuori le sale da concerto. Così si potranno offrire al pubblico le chiavi di lettura, i codici per capire meglio la musica e per discernere un grande interprete da un prodotto commerciale: perché alla musica di qualità, e a chi alla musica ha dedicato la propria vita, venga finalmente restituita la giusta attenzione e dignità.
Roberto Prosseda